Memorie di un giorno triste
Mentre fuori tutto dorme mi alzo e scostando la tenda, che copre la finestra come un manto pietoso, guardo un gatto che scivola furtivo nella notte.
Ancora una volta il sonno non arriva e a chiudere questa giornata non ci pensa nemmeno, allora prendo un libro, un libro di poesia... un poeta indiano... Tagore, lui parla d’amore l’amore al di sopra di tutto e tutti.
Sarebbe bello credere a quello che afferma, vivere immersi in un’atmosfera fatata dove tutto incede senza affanno né rancore... ma ti accorgi appena sorge il sole che tutto questo vive solo nelle pagine di un libro e non trova corrispondenza in quello che ogni giorno la vita ti da o in quello che tu le sottrai.
Eppure quelle parole devono avere un senso... da qualche parte.
Partire.
Prendo il primo volo verso una meta ignota, chissà dove mi porterà... lontano questo sì.
Come un uccello migratore volo da un paese all’altro, fermandomi solo per riposare alla ricerca di chissà cosa o chi.
Vorrei avere la mia Route 66 e correre sulla strada contro il vento che porta via ogni cosa, lasciando solo una linea immaginaria da seguire.
Mi sveglio al salmodiare di un muezzin in un paese che non conosco, ma non ho paura... le parole che fluttuano nell’aria, come tante note musicali in un pentagramma immaginario, sono dolci all’orecchio e mi aiutano ha ritrovare la strada.
Camminando in una calura soffocante, udendo un brusio a me sconosciuto, vedo persone indaffarate, mercanti e donne che camminano in fretta, bambini che corrono, realizzo... sono in un suk arabo.
Mi accorgo che tutto ciò è vero, come in un disegno di Picasso tutto sembra confuso quando invece è chiarissimo... basta guardarlo da un’altra prospettiva,
non è come la città in cui vivo dove tutto, come qui, è in movimento ma in modo informe, un ammasso di esseri che vagano sempre nella stessa maniera, larve che si cibano di indifferenza e solitudine, vivendo una vita già pianificata, frenetica, delirante... realizzando solo frustrazioni.
Apparire, mostrarsi, sdoppiarsi... diventando il dottor Jekill di se stessi.
Trovo in questo posto così misero e dimesso, riconciliazione con me stesso, lontano dalla ricerca ossessiva di status symbol appariscenti e insignificanti.
Sempre alla ricerca del vacuo e dell’effimero, ci perdiamo nutrendoci di putridume, obliando tutti gli appuntamenti importanti...
Tutto sembra essere tornato normale... finalmente vivere senza lasciarsi trasportare dalla futile corrente dell’ipocrisia.
Appagato mi siedo e ammiro ancora questa rappresentazione del vivere che accarezzandomi dolcemente m’invita a condividerne i contorni.
La parola vivere non mi abbandona più, quante volte l’avrò ripetuta, ma finalmente riesco a pronunciarla, quando fino a qualche giorno fa non sapevo nemmeno che potesse avere un senso.
Come è dolce esserci.
Respirare a pieni polmoni l’aria e sentirsi finalmente partecipe.
Come è facile... si tratta solo di un gioco dove, come in un grande flipper, diventiamo palline rimbalzanti alla ricerca di punti... e basta, non ci si chiede nient’altro.
Mentre tutto intorno continua, scorrendo come l’acqua di una cascata sulle pietre... a volte impetuosa a volte mansueta... mi sento come un viaggiatore nella tempesta (parafrasando un grande artista) teso fra due mondi completamente opposti che si guardano in cagnesco come in un ring... dimenando le mani.
Deforme comportamento.
Decisioni scellerate di chi conduce il gioco, provocano riti indecifrabili di stupidità... già stupidità, paradosso, l’unica specie intelligente che riesce solo a fare cose stupide.
Libero arbitrio... esclusivamente masochistico...
Non era questo il disegno di colui che plasmando la vita costituì il nucleo della propria discendenza.
Ora sta a noi... credenti e non rendere il nostro viaggio il più indolore possibile... perché, ne sono sicuro, è l’unica forma possibile di realizzazione...
Siamo solo di passaggio e come tutte le cose che passano... effimere... non scopriamoci natura morta.
Viviamo.
Scritto da Sarino, 11 settembre 2001