Il suo nome è Tsotsi
Era inevitabile che un film come “Il suo nome è Tsotsi” piacesse così tanto agli americani da finire candidato all’Oscar nella categoria Miglior Film Straniero (tra i selezionati, comunque, il migliore rimane sempre il palestinese “Paradise Now”!).
Classica storia di riscossa e redenzione, la commovente e simil neorealistica cronaca della vita quotidiana del giovane ma spietato Tsotsi (significa letteralmente “gangster” nel linguaggio gergale dei ghetti della comunità di colore di Johannesburg) è uno scontato e prevedibile excursus in un cinema di genere dalle regole e codifiche monolitiche e poco raggirabili.
Ciò non toglie che questa triste e “illuminante” storia (“Tsotsi” , dopo aver sparato ad uan donna ed averle rubato una macchina, scopre sul sedile posteriore un bambino) a tratti coinvolge e conquista per un uso sapiente della macchina cinematografica – la regia di Gavin Hood è funzionale e “ariosa”, la fotografia emozionante e la “nuova” musica Kwanto veramente trascinante – per interpreti generosi e “bucaschermo” e facili escamatoge sentimental/ricattatori che alla fine addolciscono anche lo spettatore più burbero ed avvezzo!
Ingiustamente accostato dalla critica internazionale al film “City of god” di Fernando Mereilles per energia narrativa e livida fotografia di una dura realtà urbana (il film brasiliano ha però un’originalità drammaturgica ed una regia “personale” che ce lo rendono inimitabile!), “Il suo nome è Tsotsi” si candida “naturalmente” a diventare il manifesto di una cinematografia “out” in grado di fotografare realtà lontane e disagiate per poi aprire sterili dibattiti in seconde serate televisive capaci di solleticare pruriti mediatici “a tempo” ma poco di incidere sulla reale crudezza di stuazioni allo sbando ed eternamente attuali.
Scritto da Calogero Messina