Jarhead
“Tutte le guerre sono diverse. Tutte le guerre sono uguali” : queste le parole dello “jarhead” (termine gergale per indicare un Marine) Anthony Swofford, soldato ventenne di terza generazione al ritorno a casa dalla Prima Guerra del Golfo. Riflessione conclusiva di un diretto testimone dell’operazione Desert Storm (il suo libro è stato salutato come una sorta di classico, annoverabile tra i migliori che siano mai stati scritti sulla vita militare) che pone l’attenzione sulla universalità e contemporaneità di stati d’animo e di ferite insanabili che ogni guerra è destinata a lasciare nell’animo umano.
E quella combattuta nel 1991 nel deserto dell’Arabia Saudita ci viene raccontata direttamente dalla bocca di questo giovane ragazzo che si fa irriverente sguardo e per nulla compiaciuto testimone di giorni di guerra che né giornali né televisioni sono stati capaci di restituirci con questa veridicità e crudezza. Pozzi petroliferi che sputano fiamme nella notte come comete precipitate sulla terra, la solitudine del combattente, il ritmo della noia, soldati rissosi, arrapati, impolverati, con una crescente ed insoddisfatta sete di sangue ma terrorizzati all’idea di un attacco da un nemico invisibile: sono gli allucinati flash e le schiette pagine di un diario dal fronte che, nello script ironico, tagliente e vero dell’ex marine William Broyles (candidato all’Oscar per la sceneggiatura di “Apollo 13”), nella luce color sabbia che tutto avvolge di Roger Deakins (storico direttore della fotografia dei fratelli Coen) ma soprattutto nello sguardo/filtro del regista Sam Mendes (“American Beauty”, “Era mio padre”, vivono di un’intensità e pathos che non necessitano di facili scorciatoie sentimentali o ruffianerie di sorta per precipitare come un macigno sui nostri stomaci.
E se difficilmente riusciremo a scrollarci da dosso la sabbia e la polvere di emozioni e sentimenti puri di un plotone di imberbi alle armi è per “colpa” del Marine Swofford interpretato da un perfetto e “istrionico” Jake Gyllenhaal (“I segreti di Brokeback Mountain”), voce e sguardo narrante che si fa potente megafono ed urlo straziante del dolore e sofferenza di un’umanità “costretta” alla Guerra.
Scritto da Calogero Messina