Senza destino
Lo confesso spudoratamente: dopo aver letto il libro del Premio Nobel Imre Kertèz “Essere senza destino” (lettura peraltro svogliata e disattenta), l’accostamento alla sua trasposizione cinematografica – ad opera del pluripremiato direttore della fotografia Lajos Koltai (“Mephisto”, “Malena”) – è avvenuto con sentimenti discordanti dominati principalmente da un senso di noia e di deja vu che non promettevano nulla di buono!
Il risultato? La sempre sorprendente scoperta di come un tema - così spesso narrato e sotto i riflettori del cinema come l’Olocausto – sia ancora capace di indignarci, commuoverci, farci soffrire ed interrogare sul senso storico, civile ed umano di una tragedia di questa portata. Il racconto straziante di questo ragazzo ebreo ungherese Gyuri Koves (Marcell Nagy è un giovane interprete più che promettente!), con un biglietto di andata e di ritorno dai campi di concentramento, diventa la cronaca lineare, silenziosa ed efficacemente descrittiva di un percorso di vita che ci sconvolge per essenzialità e pudore di emozioni che colpiscono dritto al cuore.
Se la resa è potentemente cinematografica (dalle luci alle scene, dai costumi agli interpreti delle masse... tutto è perfettamente funzionale al contesto storico/narrativo), l’impresa di Koltai – peraltro riuscitissima – è stata quella di riuscire a narrare le devastanti catastrofi e dolorosi mutamenti che accadono nell’animo di personaggi involontari protagonisti di tragiche pagine della nostra Storia.
Senza scene madri (ma è da brividi la panoramica dall’alto di questa massa di ebrei deportati che ondeggiano lievemente per la fatica di stare in piedi!|) e con un uso sapiente delle musiche (opera di Ennio Morricone), “Senza destino” ci costringe nuovamente ad indossare i panni di silenziosi ed attoniti spettatori di eventi storici ed umani che ci urlano in faccia la loro urgenza e necessità di essere perennemente ricordati.
Scritto da Calogero Messina