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penna Ricordando Mediterraneo

Ho provato a scrivere della guerra in mille modi e maniere, ma il risultato era sempre lo stesso: ne uscivo arrabbiata, sconfitta, delusa, triste, impotente.
Dev'essere una parola che proprio non mi si addice, "guerra": io che di grinta ne ho sempre dimostrata così poca, mal mi adatto ad una situazione in cui l'uno deve sovrastare l'altro.

Ma non mi sono arresa: se non sono in grado di parlare di guerra, posso sempre scrivere di pace!
Perché la pace? Perché non costa niente, perché è fatta di colori, gioia, allegria; perché non sporca le nostre coscienze col sangue di bambini innocenti; perché forse, dopo milioni di anni e di guerre, dovremmo aver capito che questa non è la soluzione!

Ma parlare di pace senza spiegare e definire la guerra è difficile. Ebbene, la guerra è quel brutto mostro che ci sta togliendo la serenità di pensare al domani in modo positivo; la pace, per contro, può definirsi come quella voglia di essere liberi ed in armonia con il mondo, al punto da scendere in una piazza e sentirsi parte di un fiume di persone che vogliono abbattere gli argini dello strapotere e dell'indifferenza.

Mi viene in mente il film di Salvatores "Mediterraneo", in cui un indimenticabile Diego Abatantuono veste i panni del Sergente Nicola Lo Russo, mandato con altri soldati italiani, durante la Seconda Guerra Mondiale, in un'isola sperduta della Grecia.
All'inizio il Sergente è molto agguerrito e pronto allo scontro più feroce: vorrebbe trovarsi nel vivo della guerra, mentre il Suo timoroso attendente, interpretato dal bravo Ugo Conti, Gli chiede: "Ma vorrebbe trovarsi proprio nel centro della battaglia?" e Lui di rimando: "E come vuoi combattere? Si può combattere stando ai margini della battaglia?!"

Ma con l'andare del tempo, dopo aver scoperto che stanno presidiando un'isola in cui sono rimasti solo civili e dopo aver vissuto tre anni in mezzo a loro, l'opinione del baldanzoso Sergente comincia a cambiare.

Lo Russo, seppur nell'illusione di portare avanti grandi ideali per costruire una nuova Italia, gioca a fare il combattente nel grande scherzo sadico e crudele che è la guerra.
Ma non era un nugolo di pecorai indifesi che Egli credeva di dover affrontare. E forse per Lui, quella è la battaglia più difficile da sostenere, perché non richiede armi o paroloni sulla liceità della guerra, bensì il coraggio di guardarsi dentro e di scrutare negli occhi il bambino, la donna, il vecchio, ai quali magari in quel momento i Tuoi alleati stanno portando via il padre, il marito, il figlio. E Lo Russo quel coraggio se lo sente morire dentro, anche se forse non è in grado di ammetterlo.

La bellissima colonna sonora del film insegue i miei pensieri incalzante, il mondo e le notizie sempre più crude, raccapriccianti e detestabili, mi danzano intorno. Ed in mezzo a tutta questa confusione riemerge nella mia mente la frase d'inizio del film: "In tempi come questi la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare" (Henry Laborit).

E pensare che proprio a quel lungometraggio gli americani avevano dato l'Oscar come "miglior film straniero" nel 1992!
Chissà se, ora, ad undici anni di distanza, dietro le trincee americane c'è Qualcuno che lo applaudirebbe ancora...


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